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Qual è il film italiano meno conosciuto del festival di Venezia

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Non è cosa che accade di frequente arrivare al concorso di Venezia con il proprio secondo film. Ci è riuscita Maura Delpero con una storia che si presenta con tutte le caratteristiche del cinema italiano festivaliero, e che invece nasconde una personalità invidiabile. Il film si chiama Vermiglio e fin dal titolo tradisce il più grande difetto di questa produzione: non aver nessun interesse a conquistare un pubblico ampio nonostante ne abbia tutte le possibilità. Vermiglio è il nome del paesino montano in cui è ambientata la storia e fa da titolo, come se questo fosse un libro e non un film che (in teoria) potrebbe attirare un pubblico non per forza cinefilo ma anche più mainstream.

Nella storia seguiamo una famiglia numerosa di questo piccolo paese di montagna durante l’ultimo anno della Seconda guerra mondiale. Ci sono diverse storie, anche se quella a cui il film dedica maggiore attenzione è quella della figlia più grande, innamorata di un soldato siciliano arrivato da poco. C’è una corrispondenza diretta tra quello che avviene nel film e il passare del tempo e delle stagioni, perché tutto nella comunità e nella famiglia segue i ritmi naturali, come è normale in una famiglia contadina dell’epoca. Il padre è un maestro dell’unica scuola locale (scuola per bambini e per adulti che vogliono imparare), uomo inflessibile e duro anche con la prole. E i momenti più belli sono quelli in cui i figli e le figlie più piccoli (adolescenti, preadolescenti e proprio bambini) parlano, commentano e si confrontano sotto le coperte.

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courtesy of Lucky Red

Dentro Vermiglio c’è una vitalità vera che il film accoppia a un tono idealizzato della vita montana di metà Novecento, la prospettiva più popolare possibile, quella di Guareschi o di De Amicis. Sono bozzetti, piccole storie di piccole persone guardate con infinito rispetto e senso del dramma e della tragedia per gli incerti della vita. Su tutto regna il ciclo di morte e vita. Le persone e gli animali muoiono e le donne restano continuamente incinte. Non è troppo lontano da quello che era il primo film di Maura Delpero, Maternal, storia di una novizia che diventa madre. In quel film e in questo qui c’è una prospettiva non religiosa ma spirituale, non cattolica ma con una chiara aura di sacro nel modo in cui si guarda alla vita. E non ci sono mezzi termini: è molto bello, comunque la si pensi. Perché è bello come Maura Delpero guarda queste persone, la tenerezza che coglie in loro, nelle ragazze soprattutto e nelle loro pulsioni. Questa è una grande regista.

Per tutte queste ragioni e per un intreccio che ha molto del romanzesco, Vermiglio avrebbe tutte le caratteristiche per essere un film che va verso un pubblico ampio. Difficile immaginare grandi incassi per un film di contadini in montagna senza star, a prescindere da come sia fatto, ma questa visione aggraziata dell’umanità ha tutte le potenzialità per piacere a un pubblico vasto (se mai lo vedesse), per quanto è tradizionale, italiano e ben fatto. Almeno le avrebbe se scegliesse la strada del cinema commerciale, invece Vermiglio è innamorato di un realismo e di un naturalismo a tutti i costi, dei tempi e della messa in scena da cinema più sofisticato. Vuole essere un’altra cosa a tutti i costi, cioè il figlio che potrebbe nascere dal matrimonio di un film di Giorgio Diritti e uno di Alice Rohrwacher, con lo sguardo della seconda e i temi del primo.

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courtesy of Lucky Red

Non serve a molto allora che compaiano ogni tanto degli attori più noti, come Tommaso Ragno nel ruolo del padre insegnante o Sara Serraiocco, sempre scelti per le parti di chi è “altro” dalla comunità, perché proviene da un altro luogo o perché ha un livello culturale diverso o (come Carlotta Gamba) perché ha un atteggiamento completamente diverso dagli altri e anticonformista. Mentre la comunità è fatta da non attori o volti non noti, scelti giustamente per l’aderenza ai canoni visivi della vita in montagna. Nella dialettica tra la riconoscibilità e la non riconoscibilità, questo film la sua scelta l’ha fatta e il molto di buono che sa mettere sullo schermo è a esclusiva fruizione di un pubblico ristretto, quello degli appassionati.

Headshot of Gabriele Niola

Nasce a Roma nel 1981, fatica a vivere fino a che non inizia a fare il critico nell’epoca d’oro dei blog. Inizia a lavorare pagato sul finire degli anni ’00 e alterna critica a giornalismo da freelance per diverse testate. Dal 2009 al 2012 è stato selezionatore della sezione Extra della Festa del cinema di Roma, poi programmatore e per un anno anche co-direttore del Festival di Taormina. Dal 2015 è corrispondente dall’Italia per la testata britannica Screen International.  È docente del master di critica giornalistica dell’Accademia d’arte drammatica Silvio D’Amico, ha pubblicato con UTET un libro intervista a Gabriele Muccino intitolato La vita addosso e con Bietti un pamphlet dal titolo “Odio il cinema italiano”. Vanta innumerevoli minacce da alcuni dei più titolati registi italiani.     
Linkedin:https://it.linkedin.com/in/gniola/it  
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