«Carrera e jeans a zampa, Mondiale del Novanta, voglia di studiare mai». Comincia così Gli anni degli anni, la canzone dei 78 Bit uscita nel 2020, a trent’anni esatti dal Campionato mondiale di calcio ospitato in Italia. Come ti aspetteresti da un pezzo simile, è intriso di nostalgia e citazioni agli 883 («Gli anni d’oro del grande Real / gli anni di Happy Days e di Ralph Malph»), menziona Pagliuca e Taffarel e poi, siccome per l’appunto parla di Italia ’90, a un certo punto entra in scena Salvatore Schillaci nelle inedite vesti di rapper: «Erano gli anni / quelli che parlano di me / e che raccontano la storia di un sognatore / che si divertiva a dare calci a un pallone». Come detto, era il 2020. Erano trascorsi trent’anni esatti dalle Notti Magiche, erano trascorsi sedici anni dalla partecipazione di Schillaci al reality L’Isola dei Famosi e di lì a un solo anno, nell’estate 2021, quella stessa celebre colonna sonora di Gianna Nannini ed Edoardo Bennato avrebbe accompagnato la vittoria azzurra dell’Europeo di calcio itinerante, tra la chitarra di Giuliano Sangiorgi dei Negramaro e la voce di Giorgio Chiellini in prima fila, accanto a Jorginho che reggeva la Coppa tra le mani. Tutta quell’immaginifica eredità derivava da Salvatore Schillaci da Palermo, l’eroe e ambasciatore di quelle Notti Magiche, un’icona italiana.
Salvatore Schillaci, nato il 1° dicembre 1964 a Palermo, non è stato solo il capocannoniere (sei gol, uno in più di Tomáš Skuhravý) e miglior giocatore di Italia ’90, torneo che aveva iniziato in panchina – in ottima compagnia, con Roberto Baggio, Mancini e Serena: gli attaccanti titolari erano Vialli e Carnevale – e concluso da icona. Nella gara inaugurale, a Roma contro l’Austria, il 9 giugno 1990, Schillaci – entrato quattro minuti prima in campo – fu già decisivo con un gran colpo di testa su cross di Vialli. Sebbene il c.t. Azeglio Vicini lo avesse tenuto in panchina contro gli USA, a Schillaci non avrebbe più rinunciato. Da titolare, Totò segnò alla Cecoslovacchia (di testa, il 19 giugno), all’Uruguay (il 25 giugno), all’Irlanda (30 giugno) e pure in semifinale contro l’Argentina (di destro, il 3 luglio) che l’Italia perse ai rigori. Schillaci non ne tirò uno: «Avevo male», dirà. Il resto è storia: la Germania Ovest batté Maradona in finale mentre l’Italia, al San Nicola, batté l’Inghilterra nella finale per il terzo posto, in cui Schillaci prima servì un assist a Baggio e poi ricevette dal Divin Codino il pallone sistemato dal dischetto che valse all’Italia il bronzo e a Schillaci il titolo di capocannoniere del Mondiale ’90.
Salvatore Schillaci, nato il 1° dicembre 1964 a Palermo, è stato anche ambasciatore di una certa italianità, come spiegò l’antropologo dello sport Bruno Barba in una delle sue lezioni presso l’Università di Genova: «Un semplice ragazzo palermitano che nel giro di quindici giorni, grazie al suo exploit sportivo, diventò uno dei personaggi più famosi al mondo, forse pure superando per un attimo Michelangelo e Leonardo da Vinci». Le sue esultanze sfrenate, la maglia numero 19 e il vanto di aver unito lo Stivale durante l’estate del Mondiale in casa resero Totò Schillaci un Paolo Rossi a differenza del quale però non ha mai vinto un Mondiale. Pablito e Totò a parte, escludendo chiaramente anche Gigi Riva, Piola e Meazza, c’è quasi un vuoto emotivo sui centravanti azzurri. Di Roberto Baggio si ricorda il rigore calciato alle stelle a Pasadena. La coesistenza di Totti, Del Piero e Inzaghi, nel 2006, a Berlino, è coperta dall’urlo liberatorio di Grosso e comunque, va detto, il miglior marcatore azzurro del Mondiale fu Materazzi, con due gol – di cui uno in finale –, pari merito con Luca Toni. Sempre contestualizzando, siccome si parla di potenza scenica ed eredità emotiva, Totò Schillaci ha segnato soli sette gol in Nazionale: tanti quanti Chiesa, Raspadori ed El Shaarawy, ma meno di Bonucci, Chiellini, Pellé e Belotti.
«Nemmeno io mi aspettavo il mio exploit. Tutto quello che toccavo diventava oro, non so perché. Avevo fatto ventun gol con la Juventus, avevo vinto la Coppa Italia e la Coppa UEFA, ma in Nazionale ero un debuttante. Sono stato eletto miglior giocatore del torneo e arrivai secondo al Pallone d’oro», dirà Schillaci in un’intervista al Corriere della Sera. «Mi sarei accontentato di poco, invece il calcio mi ha dato tutto: fama, vittorie, denaro – aggiungerà a Sportweek, a marzo del 2023 – papà faceva il muratore, era il mio primo tifoso. Io ho cercato di aiutare, ho fatto il gommista, il garzone di pasticceria, l’ambulante. Ho smesso quando mi prese il Messina». Dalle partitelle sull’asfalto del quartiere CEP, «uno dei più difficili di Palermo», Salvatore, il terzo di quattro figli di una famiglia modesta, ha incarnato una certa italianità e una certa emigrazione per lavoro in Settentrione. Così, dal Messina di Franco Scoglio – il Professore, che a Schillaci disse solo: «Fai quello che vuoi e gioca come ti senti» – e Zeman, Totò salì lo Stivale: la Juventus, poi l’Inter e addirittura in Giappone nel 1994, dove lo chiamavano Imperatore: «Per i giapponesi, lo Schillaci del Mondiale non era mai finito». Neanche per noi.