Pubblicato il
17 ottobre 2024
Nella seconda giornata di questa prima Fashion Week nella capitale rumena, Micaela Soldini, Direttrice della Italian Trade Agency di Bucharest, racconta al pubblico intervenuto alla conferenza sulla sostenibilità dal titolo “Fashion Impact: Italy and Romania face challenges”, la rapida evoluzione del mercato rumeno e dei suoi rapporti commerciali con l’Italia.
“Nel giro di un ventennio la Romania è passata da essere un mero polo manifatturiero (anni ‘90/2000) per abbigliamento e calzature a un paese partner con realtà (aziende e brand) che si distinguono per strutture moderne, mano d’opera qualificata e un consumatore locale che si è molto evoluto ed è estremamente attento a quello che acquista”, spiega Soldini. La Romania sta dimostrando un’importante vivacità culturale e creativa e secondo Micaela Soldini la reciprocità della sub-fornitura (anche l’indotto italiano può essere di supporto ai brand rumeni emergenti) e la formazione rappresenteranno per il futuro l’anello di congiunzione tra i due Paesi.
Per Alfredo Maria Durante Mangoni, ambasciatore italiano a Bucarest, il convegno è una splendida occasione di condivisione su temi legati al benessere, alla qualità e all’ambiente perché “il settore moda rappresenta un terreno fondamentale di sperimentazione per modelli di business ispirati all’economia circolare”. L’ambasciatore ricorda anche quanto siano fondamentali le collaborazioni strategiche (commerciali ma anche culturali) tra i due paesi (per la Romania l’Italia è il secondo partner commerciale in termini d’importanza).
Carlo Capasa – Presidente della Camera della Moda Italiana – ha la possibilità, nel suo lungo e accorato intervento, di ripercorrere tutte le importantissime attività nate e implementate da CNMI – a partire dal manifesto del 2012 – in ambito sostenibilità. Capasa esordisce però sottolineando i punti di contatto tra i due paesi: entrambi ad esempio mettono al centro la rilevanza della manifattura, elemento chiave per la creazione di prodotti di qualità. E’ grazie ai tavoli tematici ai quali si sono dedicati gli associati di CNMI (250 brand che pesano, incluse le licenze, il 70% del fatturato dell’intero sistema moda italiano) che è stato possibile arrivare a delle linee guida concrete, protocolli oggi utilizzati dal 90% della filiera italiana. Capasa ricorda alla platea una grande e semplice verità: “non si può essere sostenibili da soli, non può esistere un brand sostenibile, è l’intera filiera che deve esserlo, altrimenti non può esistere la sostenibilità”.
CNMI ha collaborato con Ethical Fashion Initiative, programma di punta dell’International Trade Centre, agenzia congiunta delle Nazioni Unite e dell’Organizzazione Mondiale del Commercio per arrivare a identificare dei criteri ESG specifici per la moda che aiutino i consumatori a capire e misurare la sostenibilità dei prodotti.
Insieme alla Ellen McArthur Foundation – che, dalla sua creazione nel 2010, lavora con aziende, settore pubblico e istituti di ricerca per promuovere e diffondere l’idea di un’economia circolare – CNMI si è mossa sui temi altrettanto scottanti quali la tracciabilità e il passaporto digitale e sulla circolarità a 360° (che prevede quindi riutilizzi anche in settori differenti).
La CNMI rilegge anche i metri di giudizio e sull’impatto delle materie prime che vengono analizzate non secondo il criterio di durabilità nel tempo (ottenuto con stress test di resistenza) ma di durabilità “emotiva”, legata alla materia inserita nel prodotto finito: “un abito di pizzo fatto a mano, può durare tre generazioni e non inquina come una maglietta sportiva sintetica il cui tessuto è indistruttibile ma non certo rispettoso dell’ambiente” spiega Capasa per illustrare il concetto.
E non si può non parlare di fast fashion quando si affronta il tema della sostenibilità: Capasa spiega che il problema riguarda il tipo di materie prime utilizzate da chi opera in quel settore ma, soprattutto, come questi tessuti vengono lavorati (ovvero ricercando un costo del lavoro sempre più basso e pertanto non equo). Inoltre, le enormi quantità prodotte dai vari player del settore vedono finire il 30% delle produzioni nelle discariche, soprattutto nel continente africano. E’ l’intero sistema a non funzionare per le sue logiche produttive e per evidenti problemi legati all’originalità delle creazioni, ma questo non significa che “non possa esserci una moda accessibile come quella di alcuni brand che lo sanno fare molto bene” aggiunge.
Capasa conclude il suo intervento spiegando come si stia anche operando attivamente per proteggere e certificare qualità ed artigianalità del Made in Italy e sottolinea quanto sia importante continuare a raccontare, sostenere (come CNMI fa anche attraverso i Sustainable Fashion Awards), praticare e soprattutto credere nella sostenibilità.
Antonio Franceschini, presidente di Cna Federmoda, che conta 25 mila imprese artigiane associate, ricorda come le “Pmi siano l’ossatura del sistema moda italiano. Un sistema estremamente frammentato ma molto competitivo a livello mondiale. Si contano circa 60 mila imprese moda a livello nazionale con 600mila addetti totali, per una media di circa 10 addetti per azienda. Circa il 65% delle imprese nel settore sono artigiane. I distretti rappresentano un valore economico e sociale per il sistema Paese. Il valore della filiera è legato anche alla responsabilità sociale ed ambientale. Cna è impegnata in campagne per trasmettere messaggi ai giovani sulle tematiche di filiera. In un’ottica di collaborazione a livello internazionale, la fashion week di Bucharest ci dà la possibilità di confrontarci con le realtà imprenditoriali della Romania”.
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