Il marchio di moda Brandy Melville, nato in Italia negli Anni Ottanta e oggi assai noto tra le giovani ragazze della Gen-Z, è finito in questi giorni su alcuni dei principali quotidiani e riviste del mondo come Guardian, New York Times, Rolling Stone e Time. La notizia è un documentario HBO che getta una luce, o meglio un’ombra, sulle attività del brand, portando l’attenzione sui danni ambientali del fast fashion Made in Italy.
Il documentario Brandy Hellville & The Cult of Fast Fashion della regista premio Oscar Eva Orner evidenzia come l’azienda di moda, al pari dei grandi brand Zara e H&M, persegua con ostinazione un modello di business e una strategia commerciale che privilegia la rapidità e la sovrapproduzione alla qualità, sfruttando manodopera a basso costo negli stabilimenti produttivi e nei punti vendita. E che in maniera indiretta, spingendo i consumatori a cambiare abiti a ritmi frenetici, inonda le nazioni del Sud del mondo con capi di abbigliamento usati che vanno ad accumularsi in discariche a cielo aperto.
E non finisce qui: il documentario riporta una lunga serie di pesanti accuse, che vanno da casi di razzismo nelle politiche di assunzione a un assetto societario poco chiaro, fino al sospetto che Brandy Melville abbia copiato modelli di altri marchi di abbigliamento concorrenti. A essere duramente contestata è anche la controversa politica della taglia unica, tarata sul fisico di giovani ragazze sottopeso, ritenuta responsabile di disturbi alimentari in numerose teenager, soprattutto negli Stati Uniti e in Cina.
Brandy Melville incoraggia lo spreco
Brandy Melville è famoso per i prezzi bassi dei suoi capi, solitamente inferiore a 50 dollari: ma se i vestiti costano poco, è anche perché i lavoratori sono sottopagati. Nonostante Brandy Melville si fregi dell’etichetta Made in Italy, l’azienda è un colosso con un fatturato nel 2023 da 212,5 milioni di dollari, una trentina di negozi negli Stati Uniti e almeno 90 punti vendita in tutto il mondo.
L’unico collegamento con l’Italia, nota il documentario, è lo stabilimento di Prato: non perché sia un esempio di pregiato artigianato tessile della Toscana, ma per lo sfruttamento dei lavoratori immigrati dalla Cina. L’intero assetto produttivo, incentrato sulle tendenze e la politica “one size”, è funzionale a tagliare ulteriormente i costi e spingere i clienti a consumare di più. Se i capi di abbigliamento sono fabbricati in tempi rapidissimi, a prezzo basso e grazie a manodopera sottopagata, ciò significa sacrificare la qualità e inevitabilmente i consumatori sono costretti a cambiare rapidamente i loro abiti.
Né l’atteggiamento è differente se si guarda alle strategie di marketing. Nel documentario viene acceso un faro sulla gestione dei canali social di Brandy Melville, un aspetto particolarmente sensibile visto il pubblico prevalentemente teenager. Tutto è orientato a incoraggiare l’acquisto di nuovi abiti grazie a un utilizzo spregiudicato del “modello influencer”: l’azienda non si limita a sfornare costantemente nuove tendenze, ma mette in atto strategie al limite della manipolazione.
Brandy Melville, infatti, condivide spesso sul proprio account Instagram, che attualmente conta oltre 3 milioni di follower, foto di clienti che indossano i suoi capi. Questa comunicazione spinge molte ragazze a postare le foto in cui indossano gli abiti Brandy Melville e taggare il marchio nella speranza che la foto venga condivisa, ovviamente cambiando spesso l’outfit. Una pubblicità gratuita, insomma, dove la casa di moda ci guadagna due volte.
Il Ghana come discarica a cielo aperto
Tutto questo, come del resto l’intero modello della moda rapida (fast-fashion), genera un’immensa quantità di rifiuti, che stanno diventando un problema serio, soprattutto per alcune zone del mondo. Infatti, l’eccesso di produzione di marchi in stile Brandy Melville, una volta diventato rifiuto, finisce per essere abbandonato in paesi a basso reddito come il Ghana, dove i rifiuti di abbigliamento hanno ormai trasformato le spiagge della capitale Accra in discariche a cielo aperto.
Insomma, rifiuti tessili provenienti dall’Occidente soffocano le spiagge del Ghana, inquinano i mari e hanno conseguenze disastrose sulla vita marina. Con l’esplosione negli ultimi anni della moda veloce, la situazione sta precipitando altrettanto velocemente. Il Ghana importa ogni anno circa 152.600 tonnellate di vestiti di seconda mano. I residenti di Accra li chiamano Oburoni Wawu, tradotto letteralmente “abiti dell’uomo bianco morto”. Ogni settimana, nel porto di Tema, il più grande del Ghana, a est di Accra, arrivano circa cento container lunghi 12 metri, pieni di oltre 15 milioni di articoli di moda usati.
Circa il 70% di questi abiti viene inviato al mercato dell’usato di Kantamanto, uno dei più grandi mercati al mondo, con oltre 30.000 lavoratori che vendono, puliscono, riparano e riciclano i rifiuti tessili del ricco Occidente. E questo è solo un aspetto dell’impatto del fast fashion nel Sud del mondo, sfruttato dai marchi di moda anche nelle risorse e nelle catene di fornitura e, per ironia della sorte, colpito più duramente dagli effetti dei cambiamenti climatici generati dalle emissioni di gas serra: di cui il settore tessile rappresenta una delle principali cause.
È ora di mettere fine ai danni fast fashion
Il fast fashion soffoca il pianeta con enormi quantità di rifiuti tessili, spreca risorse preziose, viola i diritti dei lavoratori e incoraggia una spirale senza fine di sovrapproduzione e consumismo: per i colossi della moda è arrivato il momento di adottare pratiche più sostenibili e responsabili. Unisci la tua voce alla nostra: ogni firma è un passo verso un futuro in cui l’industria della moda non sia sinonimo di sfruttamento e inquinamento, ma di rispetto per il pianeta e per le persone.
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