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Disco Ruin – 40 anni di club culture italiana

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Recensione di
Raffaella Giancristofaro

lunedì 5 luglio 2021

Da un punto di vista architettonico, delle grandi discoteche italiane, sorte sulle ceneri delle sale da ballo e a volte costruite da pregevoli architetti pop, oggi spesso non rimangono che le rovine. Da quello culturale, invece, molto hanno seminato in vari campi. Dall’inequivocabile potere di attrazione di questi luoghi (se pur abbandonati e già oggetto di diversi reportage fotografici), che in era pre social hanno prodotto divertimento, socializzazione, cultura, tendenze rincorse dal mainstream, prende le mosse questo mosaico di interviste e repertori raccordati da parentesi finzionali con Ondina Quadri protagonista di scorribande notturne e after hours.

Tante le voci di pionieri e insider, con una preponderanza di via Emilia e riviera romagnola, ma senza trascurare, tra gli altri, i leggendari Cosmic di Lazise, Easy Going a Roma, Plastic a Milano o Kinki a Bologna.

Una miniera di storie underground, una costellazione di scenografie e riti neotribali che riaffiora attraverso gli archivi privati fotografici e video dei protagonisti: impresari, dj, produttori discografici, buttafuori, animatori, frequentatori, performers.

Nella volontà di compendiare e mappare quattro decenni di club culture (dall’apertura del Piper a Roma nel 1965 alle chiusure di fine anni ’90), difficilmente rappresentabili o visualizzabili, se non nelle parole degli artefici e dei testimoni oculari, le registe e sceneggiatrici esordienti Lisa Bosi e Francesca Zerbetto, in assenza di brani originali, trovano un contesto nelle pagine coeve alle culture del ballo: “Fluo” di Isabella Santacroce, “Rimini, Altri libertini” e “Un weekend postmoderno” di Pier Vittorio Tondelli, “Generazione in ecstasy” di Fabrizia Bagozzi.

Nella staffetta di stili e di mode – dal beat e psichedelia alla discomusic, funky, cosmic, afro, italo disco, house e techno – gli intervistati insistono sul ruolo della discoteca come laboratorio di sperimentazione artistica e teatro di liberazione, soprattutto sessuale, contrapposta all’omologazione del “fuori”, mentre in parallelo i dj si ritagliano gradualmente la funzione di guide spirituali e si impratichiscono con tecniche sempre più raffinate.


Un “Altromondo” (per citare un leggendario locale riminese, oggi è come altri materia di studio e allestimento museale) che ha fatto della prossimità, della condivisione non mediata, del senso di comunità il proprio credo, fino a quando l’Aids e le derive narcotiche non hanno rovinato la festa, intesa come celebrazione d’amore, volontà di autodeterminazione, fantasia.

Forse i nativi digitali si stupiranno davanti a un tale senso di collettività nomade e anche un po’ naïf, mentre chi è cinquantenne o giù di lì condividerà l’emozione di Claudio Coccoluto nel racconto dell’ultimo pezzo suonato all’alba. Visione integrabile, per chi volesse approfondire, con “Discoinferno” di Carlo Antonelli e Fabio De Luca e “Club Confidential” di Lele Sacchi.


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