La foto in bianco e nero più famosa del tennis italiano, con uno dei look più rivoluzionari e il sorriso da irriverente (futura) signora perbene: per dire addio a Lea Pericoli morta a 89 anni, la scelta della Federazione Italiana Tennis va oltre l’omaggio sentito. È la foto che ferma l’attimo dell’essenza stessa di Lea Pericoli. Intelligente, elegante, fuori dalle regole quel tanto che bastava. Tutto ciò che è stata tra racchette, palline, rottura degli schemi couture, giornalismi, televisioni, sciura suprema da catalogo (e peccato che non sia mai riuscita a sfondare i limiti social, avrebbe fatto faville), capacità di giocare e raccontare il tennis con la competenza aggraziata che il campo le aveva dato. La Divina, l’aveva soprannominata Gianni Clerici, vate del giornalismo tennistico, e lei nemmeno se la prese quando il soprannome divenne appannaggio di Federica Pellegrini nel nuoto. Lea Pericoli signora del tennis italiano lo ripetono tutti, oggi, il mantra che riassume la sua essenza da immortale dell’immaginario, coloro che abbandonano la vita terrena per continuare a vivere nelle enciclopedie dei ricordi. Sportivi, di costume, di mestiere. Prima donna in telecronaca di una partita di tennis in Italia per Telemontecarlo, pioniera degli abiti cortissimi in campo, Lea Pericoli era arrivata a 89 anni senza mai abbandonare il “foularino”, l’impegno -specialmente per la prevenzione dei tumori, lei che era stata pioniera anche nel fare da testimonial contro il cancro, spronata da Umberto Veronesi- e l’occasione per una battuta. E quel tennis, mai rimpianto dopo l’addio, nella consapevolezza di non volersi confrontare con l’atleta che era stata. “Mi sono divertita giocando. Il tennis mi ha consentito di girare il mondo, è stato una grande opportunità anche se all’epoca non si guadagnava una lira, il professionismo era vietato e percepito alla stregua di un disonore” raccontava in un’intervista a Famiglia Cristiana.
Non ha mai lesinato i dettagli sulla sua vita privata, Lea Pericoli la biografia l’ha scritta personalmente in un lungo libro. Era nata a Milano il 22 marzo 1935, ma aveva vissuto a lungo tra Etiopia ed Eritrea, dove il padre Filippo aveva fatto l’imprenditore, era stato prigioniero nel campo di concentramento di Dire Daua (liberato solo per intercessione del negus Hailé Selassié) e infine era diventato direttore dei trasporti d’Etiopia. Un fratello e due sorelle, famiglia benestante e movimentata, un’istruzione privilegiata che le diede strumenti preziosi per un lavoro futuro che non avrebbe mai pensato di svolgere, quello di giornalista televisiva “devo ringraziare la voce e l’inglese: all’epoca nessuno lo parlava”. Dopo aver studiato in un collegio a Nairobi in Kenya (“Loreto Convent, a Nairobi: la più grande fortuna della mia vita”), Lea Pericoli tornò a Milano.
Giocando a tennis in Versilia con Gino Bertolucci, padre di quel Paolo Bertolucci che sarebbe diventato poi uno dei ragazzi della Coppa Davis 1976, Lea Pericoli capì che il tennis era la sua strada: nonostante la mancanza del professionismo, dai primi tornei negli anni Cinquanta a metà anni Settanta, con tanto di passaggio all’era Open, Lea Pericoli inanellò 27 titoli italiani, tuttora un record, ed è stata la numero 1 d’Italia per 14 anni tra il 1959 e il 1976, e per altre quattro volte numero 2. Giocava la qualunque, in doppio con Silvana Lazzarini dava del suo meglio grazie a due diversi approcci al tennis (ottimo sottorete quello di Pericoli, più dinamico e lungo per Lazzarini). “All’epoca facevamo tutto: singolare, doppio e doppio misto, ovviamente solo per Coppe e medaglie, ne ho la casa piena”. Memorabile l’unica partita con annessa vittoria in cui si formò in campo la coppia Lea Pericoli-Nicola Pietrangeli: a detta della tennista milanese, lui non era un buon partner di doppio perché faceva troppo il galante con le avversarie. Sarebbero comunque rimasti amici tutta la vita, partecipando bordocampo ai principali tornei come Roland Garros e Internazionali d’Italia, e scherzando sul fatto di aver solo giocato insieme senza aver mai dato vita alla possibile unione sentimentale che avrebbe fatto impazzire il gossip di metà Novecento.
Perché Lea Pericoli faceva scrivere i giornali, e tanto. Era brava nel suo lavoro di tennista, indiscutibilmente affascinante, e sapeva far parlare la propria intelligenza. Di uomini belli ne aveva conosciuti tantissimi ma non sponsorizzava né Pietrangeli né il più giovane Adriano Panatta, che negli anni Settanta sarebbe stato il suo alter ego maschile in termini di eccesso di gossip (complice anche la storia mediatica con Loredana Bertè). Le piacevano altri uomini: “Umberto Bitti Bergamo, prima tennista e poi imprenditore, era il più affascinante in assoluto. Ho avuto una storia importante con Bitti. Purtroppo se n’è andato troppo presto” ricordava affettuosamente al Corriere, con la levità discreta delle signore milanesi, cui basta un sopracciglio per comunicare la fine dell’intrusione nella privacy. “Non mi piace rivangare gli amori finiti. Ho avuto molte storie belle, mi sono anche sposata, diciamo che sono stata brava a non lasciare che la gente parlasse male di me, inclusi i miei ex”. E a chi le chiedeva perché non avesse avuto figli, rispondeva ancora più diretta: “Non ho fatto in tempo, avevo troppe cose da fare. O forse non ci ho mai davvero pensato sul serio”. Nel 1972 scopre di avere un tumore. “L’ho preso in tempo. Allora la chemioterapia era devastante, oggi le cose sono migliorate. Io non sono una donna coraggiosa. Quando me l’hanno diagnosticato, sono quasi svenuta” rivelò tempo dopo, riportata dalla FITP. Lea Pericoli è stata il volto della prima campagna di prevenzione per il carcinoma al collo dell’utero e ne è stata il simbolo per 40 anni, anche quando scoprì un secondo tumore nel 2012.
Se non era per la vita privata, erano i look di Lea Pericoli a conquistare l’attenzione collettiva. Scandalizzando la morale dell’epoca, fu la prima a far debuttare le minigonne nel tennis, liberando le gambe che fecero infuriare suo padre. Sui campi sfoggiò inserti di pelliccia, piume, sottovesti rosa e ancora pizzi, merletti, foulard impeccabili tra i capelli, sembrava di veder giocare una regina dal pallonetto fiabesco. In più era entrata alla corte di Ted Tinling, stilista avanguardia dell’epoca che vestiva grandi tenniste come Suzanne Lenglen e Tracy Austin, e divenne la sua rappresentante più coquette e concreta. “Il primo anno a Wimbledon, era il ‘55, venivano tutti in processione a vedere le mie mutande di pizzo. La Federazione italiana minacciò di squalificarmi!” rideva divertita nel ricordarlo. “Tinling mi vide e mi chiese: “Non lo vuoi un bel vestito?” Non dissi di no. Ma certo non pensavo che il giorno dopo avrebbero tutti parlato della mia sottoveste o, dopo, delle mie piume. Mio padre andò su tutte le furie, mi fece smettere di giocare a tennis” disse anni dopo, svelando di aver donato quei preziosi vestitini al Victoria & Albert Museum “mi pareva meno triste che lasciarli rinchiusi in un armadio”. Nella tristezza, è il caso di riorganizzare una mostra di quei vestiti che cambiarono il gioco tennis. Celebrando la divertita grandezza di Lea Pericoli, ancora una volta.