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Fast Fashion: ecco quanto inquinano i resi online – Greenpeace Italia

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Il mercato online del fast fashion è dominato da spedizioni e resi gratuiti. Ci vuole solo un click per acquistare e appena un altro per rispedire la merce al mittente. Ma qual è la reale impronta ambientale di questa filiera? È la domanda che ci siamo posti insieme ai giornalisti del programma Report di Rai 3 e alla quale abbiamo cercato di rispondere con la nostra indagine.

Ne è uscita una fotografia allarmante, con vestiti che percorrono migliaia di chilometri, venduti e resi fino a tre volte. E il costo? Nessuno per l’acquirente, insignificante per le aziende e insostenibile per il pianeta.

La nostra indagine sui resi online

Abbiamo acquistato 24 capi da otto e-commerce di fast fashion

Insieme ai giornalisti della trasmissione Report di Rai 3, la nostra Unità Investigativa ha acquistato 24 capi di abbigliamento di fast fashion dall’e-commerce di otto aziende: Amazon, Temu, Zalando, Zara, H&M, OVS, Shein e ASOS

Per ogni acquisto è stata scelta la modalità di spedizione gratuita con le relative tempistiche di consegna offerte dal venditore. L’indirizzo di spedizione fornito ai venditori è stato lo stesso per tutti.

Il percorso di ogni reso è stato tracciato con un localizzatore GPS nascosto

Una volta ricevuti i nostri pacchi, prima di renderli ai venditori abbiamo nascosto al loro interno un localizzatore. Alcuni resi sono stati ritirati dai corrieri incaricati dal venditore, altri, invece, sono stati consegnati presso i punti di consegna indicati dai corrieri. Non abbiamo mai consegnato i resi presso i punti vendita locali dei venditori.

Ed ecco cosa abbiamo scoperto

In 58 giorni i vestiti hanno percorso nel complesso circa 100mila chilometri

I pacchi hanno attraversato ben 13 Paesi europei e la Cina. In media, la distanza percorsa dai prodotti per consegna e reso è stata di 4.502 km. Il tragitto più breve è stato di 1.147 km, il più lungo di 10.297 km.

Il mezzo di trasporto più usato è risultato il camion (54.222 km), seguito da aereo (34.123 km), furgone (8.290 km) e nave (2.310 km).

Gli abiti vengono venduti e rivenduti. Per poi finire spesso in una situazione di stallo.

I 24 capi di abbigliamento sono stati venduti e rivenduti in tutto 40 volte, con una media di 1,7 vendite per abito, e resi per ben 29 volte. Dopo quasi due mesi, 14 indumenti su 24 (pari al 58%) non sono ancora stati rivenduti.

Tutti i capi di abbigliamento di Temu sono stati spediti dalla Cina e hanno percorso oltre 10 mila chilometri (principalmente in aereo): a oggi, nessuno risulta rientrato nelle disponibilità del venditore dopo il primo reso. 

In Spagna. ZARA e ASOS hanno rivenduto un solo capo su tre (33%). ASOS, Zalando, H&M e Amazon sono in cima alla classifica per numero medio di rivendite: 2,25 volte. Mentre il 100% dei capi resi a Temu, OVS e Shein non è ancora stato rivenduto.

Le emissioni prodotte dal trasporto e dal packaging sono notevoli

Con la start up INDACO2 abbiamo stimato che l’impatto medio del trasporto di ordini e resi è risultato pari a 2,78 kg CO₂ equivalente: il packaging incide per circa il 16% su queste emissioni. 

In media, per il confezionamento di ogni pacco sono stati usati 74 g di plastica e 221 g di cartone. Prendendo come esempio l’impatto di un paio di jeans (del peso medio di 640 g), il trasporto del capo ordinato e reso comporta un aumento di circa il 24% delle emissioni di CO₂. Il costo medio del carburante per il trasporto è stimato in 0,87 euro.

Vuoi leggere i dati completi? Scarica il nostro report “Moda in viaggio: il costo nascosto dei resi online”.

I resi online del fast fashion non fanno che aggravare i problemi di un settore già insostenibile 

Le politiche di reso spesso gratuite che incoraggiano l’acquisto di vestiti usa e getta sono l’ennesimo tassello di un settore che genera un impatto ambientale enorme.

Ogni anno nell’UE vengono buttati circa 5,8 milioni di tonnellate di prodotti tessili, ossia circa 12 kg a persona, ma l’impatto dell’industria vertiginosa del fast fashion è in continua accelerata. A livello globale, la produzione e il consumo di prodotti tessili sono raddoppiati dal 2000 al 2015 e potrebbero triplicare entro il 2030.

Affrontare il problema del fast fashion richiede un impegno sia da parte dei consumatori che delle aziende: occorre acquistare e produrre meno e meglio. E i governi a loro volta devono regolamentare un settore che oggi spreca risorse, inquina e sfrutta i diritti dei lavoratori. Mentre altri Paesi stanno iniziando a prendere delle iniziative importanti (come la Francia, che di recente ha presentato una proposta di legge per tassare il fast fashion), in Italia il problema non viene minimamente considerato. È tempo che il nostro governo imponga dei limiti a questo modello di business vorace che genera enormi impatti sociali e ambientali.

Unisci la tua voce alla nostra!

Chiedi insieme a noi un’immediata azione per porre fine al fast fashion
e aiutaci a trasformare il settore della moda in un sistema a misura di pianeta!

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