The Holdovers – Lezioni di vita
Alexander Payne
Che Dio benedica Paul Giamatti, artista in grado di creare una sinfonia patetica suonando 12 note diverse, e di far sembrare naturale ogni suite dissonante. E che, così facendo, riassume tutta la natura umana in poche pennellate fondamentali. Attori old school, una storia di crescita, relazioni e timori: The Holdovers non è forse un feelgood movie, però ci assomiglia. Che lo vogliate come film per le Feste, o come rewatch di comfort che sa sempre strappare un sorriso, la scelta sarà corretta.
Una rifugiata afghana in California, una fabbrica di biscotti della fortuna, l’arrivo imprevisto di Jeremy Allen White. Non c’è solo questo, in Fremont. C’è la regia – tra la Nouvelle Vague e Jim Jarmusch – di Babak Jalali. La scrittura del regista e della nostra golden girl Carolina Cavalli. Il bianco e nero splendido ma mai di maniera. Il senso profondo di cosa significa cinema indie, e di quanto può parlare all’oggi (e non solo ai festival). Un gioiello, chi non l’ha visto lo recuperi adesso.
Grande cast, grande budget, grandi aspettative. Sì, l’adattamento di uno dei musical più di successo nella storia del teatro è un musical per il grande schermo, che coglie nel segno a partire dal cast, che mette una di fronte all’altra Ariana Grande e Cynthia Erivo nel ruolo della strega “buona” (la prima) e “cattiva” (la seconda). Il coronamento di dieci anni di carriera con pochi pari per la popstar, una consacrazione per Erivo, stella del teatro britannico. Unica pecca? Be’, forse avremo aumentato un po’ la presenza del verde…
Chien de la casse
Jean-Baptiste Durand
Come si parla di tutto senza parlare (apparentemente) di nulla? Come fa Jean-Baptiste Durand, attore, nella sua opera prima da regista. Che fotografa il “far niente” di provincia come pochi film prima di questo, ricordando illustri precedenti come Eustache e Pialat ma trovando una cifra già sua. E, appunto, qui succede tutto: l’ansia delle relazioni, l'(in)comunicabilità tra i sessi, la tensione “fluida” che forse ci contraddistingue tutti. Merito anche di un trio d’attori straordinario: Anthony Bajon, Raphaël Quenard e la gloriosa (cfr. l’esordio di Margherita Vicario) Galatéa Bellugi.
Beetlejuice Beetlejuice
Tim Burton
La Warner Bros. voleva mandarlo direttamente su piattaforma. Tim Burton si è impuntato, e ha rinunciato a una grossa fetta di budget, rendendo ancora più artigianale e meno digitale la sua creatura. Ha avuto ragione lui (ma dai): 450 milioni di dollari di incasso globale, e un rinnovato amore per l’autore scottato al cinema dalla débâcle disneyana di Dumbo. Ne esce un sequel che strizza l’occhio al pubblico giovane di Mercoledì ma al contempo celebra senza troppa nostalgia la generazione di spettatori cresciuta con lui. Piazzando almeno due sequenze cult: l’entrée di Monica Bellucci e il numero musical in chiesa sulle note di MacArthur Park.
Green Border
Agnieszka Holland
Un atto d’accusa, senza sconti, contro l’orrore quotidiano delle condizioni con cui vengono trattati i rifugiati che cercano di entrare in Europa attraverso il confine tra Polonia e Bielorussia. A 75 anni, la regista polacca Agnieszka Holland ci porta un film dallo stile e dalla struttura modernissima, ma soprattutto politicamente devastante. Una denuncia potentissima delle responsabilità dell’Europa nei confronti di una situazione che si aggrava drammaticamente giorno dopo giorno. Il cinema, oggi e sempre, deve essere (anche) questo.
Challengers
Luca Guadagnino
Contate le volte che vi siete innamorati quest’anno: tra quelle ci sarà anche Challengers di Luca Guadagnino, il triangolo amoroso nel tennis che ha messo in coppia – anzi, tripletta – Zendaya, Josh O’Connor e Mike Faist. Match point anche per Guadagnino e il suo cinema: il primo prodotto interamente in America, quello che davvero ci ha fatto capire che si può essere cool volando alto e, viceversa, che le grandi aspirazioni non debbano rivolgersi solamente a una nicchia di eletti. E poi c’è una scena indimenticabile con i churros. Allora ne vorremmo due, grazie.
Il ragazzo e l’airone
Hayao Miyazaki
Nel sogno negato di “un mondo pacifico, ricco e buono”, il maestro dei maestri Hayao Miyazaki sa che non è ancora troppo tardi per ritrovare fiducia nella realtà passando attraverso – preferibilmente incolumi – la poesia del “fantastico”, le sue leggi, le sue trappole. Il risultato è un bellissimo film sulla morte e sul divino, un racconto di formazione delizioso e struggente, un capolavoro che – come sempre – mischia i generi e si rivela un testamento immaginifico e struggente. Da mettere a confronto con il (bel) documentario Hayao Miyazaki e l’airone.
Dune – Parte due
Denis Villeneuve
Il favore del pubblico è stato altalenante, ma noi ringraziamo gli dèi (quali, lo scegliete voi) che Denis Villeneuve abbia potuto girare il secondo capitolo del suo adattamento di Dune di Frank Herbert. Shakespeare, Young Adult, epica classica: dentro questa seconda parte c’è tutto, e il film supera sé stesso. Anche perché, per come sono studiate le immagini, Dune – Parte due va gustato al cinema. Così possiamo farci sempre più grandi, mentre i protagonisti (il Paul Atreides di Timothée Chalamet su tutti) crescono con noi.
Los colonos
Felipe Gálvez Haberle
Una sorta di Killers of the Flower Moon, ma non nella Terra Rossa: qui siamo nella Terra del Fuoco. Il collettivo argentino El Pampero, che di recente ci ha dato il fluviale e notevole Trenque Lauque, colpisce ancora. Stavolta dietro la macchina da presa c’è Felipe Gálvez Haberle, che racconta una storia di carnefici e prede con l’occhio del cinema d’avventura à la Herzog. Pensando in grande, ma senza mai dimenticare l’umanità al fondo di questa parabola, e raccontando insieme la Storia di un Paese capace di diventare universale. Da noi su MUBI.
Giurato numero 2
Clint Eastwood
A 94 anni, Clint è ancora Clint. Anzi, più Clint che mai. E sforna un’altra operetta (no: operona) morale che però vale anche come puro intrattenimento. Giurato numero 2 è un legal drama solido, diritto, orgogliosamente vecchia scuola e però in grado di parlare ai fantasmi (anche politici) dell’America di questi giorni. E con un cast super: dall’ordinary man Nicholas Hoult a Toni Collette, J.K. Simmons, Chris Messina e tutti gli altri. Anche qui, la major di turno pensava a una vita solamente digitale: c’è stata una sollevazione di critica (e poi pubblico), ed è stato giusto così.
C’è un termine in coreano che sta a indicare “il gioco del destino”: in-yun, ovvero l’eterno riconoscersi al di là delle scelte, nella nervosa e impacciata nostalgia di qualcosa che non è mai accaduto. L’amore, se non lo sapessimo, è quella roba lì. O almeno è il postulato di Past Lives, brillante esordio della trentacinquenne Celine Song che apparecchia una storia tanto piccola quanto precisa, che colpisce al segno di ciò che abbiamo bisogno di sentirci dire in momenti di cuore spezzato; o anche, perché no, di meravigliosa felicità. Punti in più per la presenza di Greta Lee.
American Fiction
Cord Jefferson
Quando una storia comincia con uno scrittore in crisi, sappiamo che non sta mai solo parlando di uno scrittore in crisi. Dentro questa considerazione sta anche l’opera prima di Cord Jefferson, che usa il linguaggio – quello che usiamo per descrivere il mondo – come detonatore di una satira verso le storture della società woke e della sua narrazione della vicenda afroamericana. Tra satira e dramma, American Fiction tocca dove raramente un debutto alla regia si propone di colpire. E offre al gigantesco Jeffrey Wright la vetrina che si merita.
I delinquenti
Rodrigo Moreno
Un altro imperdibile affresco argentino è quello firmato da Rodrigo Moreno. Tre ore (però speditissime) per raccontare la vicenda di Morán e Román, due impiegati di banca che s’improvvisano, appunto, delinquenti. Ma con moderazione: si accontentano della cifra che gli spetterebbe se continuassero a lavorare fino alla pensione. Un soggetto che parte dell’ordinary life di un popolo e di un Paese per farsi, pure in questo caso, discorso e sentimento collettivo di un tempo (e un tema) che ci riguarda tutti. Anche questo su MUBI.
The Substance
Coralie Fargeat
Dopo Revenge, Coralie Fargeat l’ha fatta di nuovo, la magia, confezionando un B-movie per l’era moderna che parla ad alcune delle nostre paure più ataviche. Veicolandolo attraverso l’accoppiata da manuale Demi Moore (che ritorno!)-Margaret Qualley e una storia ai limiti del paranormale che parla di aspetto fisico, del tempo che passa, e della difficoltà di ritrovarsi ed essere sempre sé stessi, al risveglio di ogni giorno. La nostra ansia, servita su un piatto d’argento (su cui gli schizzi di sangue si riflettono proprio bene).
Questo è un film di Sean Baker, e nei film di Sean Baker si ride moltissimo, anche se raccontano sempre di un’America marginale, mortificata, massacrata (vedi, su tutti, Un sogno chiamato Florida). Si ride moltissimo anche in quest’ultimo, che ha vinto la Palma d’oro a Cannes. Nessuno mette in scena le relazioni come lui, nessuno gira certe sequenze come lui, come in un matrimonio (im)possibile tra John Cassavetes e John Landis, ma con una cifra che ormai è totalmente riconoscibile come sua; e soprattutto nessuno come lui riesce a usare la commedia per fare il più lucido dei discorsi sull’America tradita dal capitalismo, dalla politica, da sé stessa. E poi c’è Mikey Madison: a star is born.
Un film pressoché muto. Su un anziano signore giapponese che pulisce bagni pubblici a Tokyo. Un cinema contemplativo, apparentemente fuori da questo tempo. E invece. L’ultimo lungometraggio di Wim Wenders (il suo vero grande ritorno alla finzione, possiamo dirlo? Sì, possiamo) ha conquistato i cuori di platee insperate (anche da noi, con quasi 6 milioni al botteghino), individuando il sentiment di questi tempi demure. Forse non parla esattamente di quello che gli è stato attribuito (il vivere con poco, la rinuncia alle ambizioni, il trovare un posto “alternativo” nel mondo), ma il cinema a volte dice cose che non sapeva lui per primo. E va bene così.
Povere creature!
Yorgos Lanthimos
Amato, odiato, eccessivo, quasi sommesso nel suo messaggio: l’uscita di Kinds of Kindness non ci ha fatto dimenticare il precedente lavoro di Yorgos Lanthimos, impegnato a misurarsi con l’adattamento del romanzo omonimo di Alasdair Gray. Il risultato è un’Emma Stone (da – meritatissimo – secondo Oscar) incantevole nei panni della ragazza che tutti vorremmo, alla fine, essere, impegnata a destreggiarsi tra il suo egoismo naturale, la sorpresa dell’eterna scoperta, e l’eccitazione di una libido senza confini. Da vedere e rivedere.
La stanza accanto
Pedro Almodóvar
L’Hopper appeso alla parete con la gente seduta al sole. “All the living and the dead” che chiude, luminosamente, il racconto più cupo e famoso di Joyce. Una giacca gialla e un rossetto scarlatto. E due magnifiche presenze: Tilda Swinton e Julianne Moore. Leone d’oro a Venezia 81, La stanza accanto è un film sulla morte in realtà vitalissimo. Da qualche tempo, il Pedro globale ha avviato una riflessione sul dolore e la gloria della fine che ci attende tutti. Questa è la prosecuzione obbligata, precisa e dolorosa. Ma mai dolente. E anche un atto politico sul fine vita come nessuno prima d’ora. Un capolavoro che resterà.
La zona d’interesse
Jonathan Glazer
La componente più celebrata dell’ultimo film di Jonathan Glazer è stata l’uso sapientissimo, diegetico e disturbante del sonoro. Ed è vero che i sussurri, le grida, le bombe che sostengono la storia del gerarca nazista Rudolf Höss gonfiano la pelle e, senza dir nulla, spiegano tutto. Che cosa significa condurre una vita idilliaca à côté del campo di concentramento in cui si sta progettando la “soluzione finale” contro il popolo ebraico? Be’, se già il pitch è sorprendente, la realizzazione nel film non è da meno. Un capolavoro seminale, destinato a restare.