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Intervista a Marco Belinelli, l’unico giocatore di basket italiano ad aver vinto un campionato NBA: «La classe è far sembrare facili le cose difficili»

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Il suo obiettivo è alzare quelle due bimbette come una coppa, dentro una coppa, in mezzo al campo. «Vorrei che mi vedessero sollevare un trofeo importante. Ho sempre avuto questo desiderio fin da quando ero piccolo e vedevo i miei compagni di squadra più grandi portare i figli alla partita, prenderli in braccio alla fine, dargli il cinque. Forse non sembra, ma sono un romantico. Però devo sbrigarmi. A trentotto anni voglio far vedere in ogni allenamento che sono ancora capace di aiutare la squadra a vincere. La scorsa stagione ci sono riuscito, ho avuto la forza di dimostrare che potevo essere ancora importante».

Martina. Giaccia e camicia DIOR, jeans LEVI’S, scarpe SEBAGO. Marco. Giacca GIVENCHY, Maglia FERRAGAMO, pantaloni MARNI

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L’allenatore precedente della Virtus, Sergio Scariolo, lo vedeva già vicino al capolinea: «Le scelte vanno rispettate, ma stare fuori è fastidioso. Mi sfogavo a casa, ero sempre incazzato. Poi l’allenatore nuovo, Luca Banchi, mi ha dato fiducia e mi sono rimesso in gioco per far vedere ancora il talento e l’amore per questo sport che ho. Dietro c’è tanto lavoro, l’alimentazione giusta e la famiglia. Prima le sconfitte duravano giorni, molto più delle vittorie: passavo a volte anche mesi a rimuginarci, ossessionato, incapace di pensare ad altro. Ora è impossibile, pure volendo». Martina conferma: «Mi ha sorpreso come le nostre figlie lo abbiano cambiato. Gli fanno passare tutto. È diventato più responsabile e anche paziente, prima era abituato ad avere tutto e subito, se perdeva una partita era tutto uno schifo per giorni… Spero sappia insegnare loro la determinazione che ha nel raggiungere gli obiettivi che si pone. Mi preoccupa un po’ il momento in cui smetterà: ama il basket alla follia, soffrirà molto, non si immagina senza un pallone».

A scanso di equivoci: Belinelli è tutt’altro che triste e crepuscolare. Se la gode a pieno, la sua vita tutta casa e palasport, sempre sorridente e si direbbe semplice, se non fosse una definizione così semplice. Ma la paternità gli ha fatto scoprire pensieri nuovi e adulti. Normali: «La mia più grande paura è morire perché ho paura di lasciar sole le mie figlie. A volte in trasferta mi ritrovo di notte, in una stanza d’albergo, e in quei momenti di vuoto a pensare niente mi chiedo se c’è davvero qualcosa dopo. Sono un credente non praticante, da classico italiano. Penso di essere un buon padre, ma chi può dirlo? Saprò dare loro la giusta educazione? Sapranno comportarsi bene? Con chi usciranno? Chi frequenteranno? I social, poi, sono pericolosi, se non ci si sa stare dentro nel modo giusto: noi eravamo sereni e felici con molto meno. Ero negli Usa nel periodo del Black Lives Matter e ho visto che i campioni dello sport là si fanno molti meno problemi a esporsi pubblicamente, a prendere posizione. I giocatori hanno molta più visibilità e alle spalle un sindacato forte. Il problema del razzismo lì è più grande. Qui dovremmo fare qualcosa di più per i diritti delle donne, perché il mondo sia più giusto e sicuro per loro».

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