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Joker – Folie À Deux

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Recensione di
Paola Casella

mercoledì 4 settembre 2024

Arthur Fleck è in carcere per aver commesso cinque omicidi (in realtà sei, ma di uno la polizia non è al corrente), fra cui quello più clamoroso in diretta tv nazionale, ed è in attesa del processo che deciderà della sua pena: la sua avvocatessa vuole chiedere per lui l’attenuante dell’infermità mentale che riconosca la personalità doppia Arthur/Joker, il viceprocuratore distrettuale Harvey Dent invece vuole la sua testa, invocando la pena di morte. I suoi carcerieri (e aguzzini) lo deridono e lo umiliano, ma uno di loro gli permette (a titolo di scherno) di entrare in un coro di internati di cui fa parte Lee, la giovane donna di cui Arthur si innamora all’istante, intravvedendo in lei la sua prima opportunità di essere realmente visto e accolto: ma Lee è innamorata di lui o del Joker?

Era difficile bissare il successo planetario del primo Joker e Todd Phillips sceglie la strada più intelligente.

Cioè costruirne un sequel con tutti i frammenti della cultura pop (anche a rischio banalità) che decretano il consenso in questa epoca scellerata e improntata alla performance di sé e allo scimmiottamento della realtà, e trasformando in instant tv movie (o in instant cult movie, come Joker appunto) qualunque accadimento. Complice anche la presenza, nei panni di Lee/Harley Queen, di Stefani Joanne Angelina Germanotta, anche lei dotata di alter ego musicale iconico come Lady Gaga, Phillips ha l’intuizione più azzeccata rispetto alla sua scelta di campo, ovvero quella di costruire un non-musical in cui Lee si esprime principalmente attraverso la retorica delle parole delle canzoni (spesso di Broadway) più celebrate, mentre Arthur finirà per chiederle (come molti di noi vorrebbero fare quando gli attori in un musical si esprimono solo cantando) di piantarla.
Joker: Folie a Deux individua l’aspetto sinistro dei musical che inneggiano all’entertainment a tutti i costi incitando a sorridere e ad essere felici, con quel tono forzato che impone l’happy ending e che fa pendant con la risata incongrua del Joker, il nomignolo Happy affibbiatogli crudelmente dalla madre e la componente amaramente ridicola della vita.
Anche tutto il pop della realtà viene “messo in scena”: Anonymous, la pandemia, George Floyd, l’assalto a Capitol Hill, Qualcuno volò sul nido del cuculo, la “coppia felice” alla Sonny e Cher. C’è tutto il carrozzone (The Band Wagon è il film con Fred Astaire che si vede in Joker: Folie a Deux) e tutta la musica che “usiamo per sentirci interi”, qui invece frammentata in assaggi di saggezza popolare come commento satirico di un’esistenza incomprensibile e della possibilità che esista il vero amore.



Joker : Folie a Deux sa che vogliamo che gli “amici” (social) “possano vederci ora” e invidiare la nostra vita perfetta (così come la raccontiamo), che il nostro sorriso possa “far sorridere tutto il mondo con noi” (lasciandoci però il ruolo di protagonisti assoluti), giacché il diritto alla propria autorappresentazione, sia essa legale che performativa, è sancito persino dal tribunale. Ma dall’altra parte c’è lo strazio di chi non sa (e non vorrebbe) adeguarsi alla continua narrazione di sé, e sa che solo quando diventa un pagliaccio raccoglie consensi e approvazione.
Come nel primo Joker, Joaquin Phoenix carica sulle sue spalle tutto il racconto, si lascia attraversare dal ruolo del protagonista nella sua doppia valenza, e fin dalle prime scene incarna tutto il dolore del mondo, riuscendo a surclassare Lady Gaga, efficace nell’incarnare le sfumature e le contraddizioni del suo personaggio ma non altrettanto poliedrica.
Phillips mescola tutti i generi, il musical ma anche il prison movie o quell’animazione che anticipa nel prologo l’importanza dell’ombra, dark side che finisce per appropriarsi della vita di una star, ma anche ombra desolata del cane (di cui si preannuncia nelle prime scene il funerale) di una persona amata che rischia di lasciarci da soli, per una (ennesima) volta nella nostra vita.
Persino la sua avvocatessa vuole che Arthur si divida in due, non capendo che in quest’epoca a salvare la pelle è il personaggio, non la persona. Ma lui è senza ombrello, si lascia piovere addosso come tutte le creature che non pensano di meritare copertura, e tuttavia resta intero nonostante i continui abusi, mentre il resto del mondo indossa una maschera (anche quella del Joker) per nascondere al mondo (e a sé) la propria identità. Phoenix è straziante dall’inizio alla fine, anche quando ride, anche quando balla (meravigliosamente) il tip tap perché “It’s show time!”
Forse chi ha amato il primo Joker non sarà contento di questo rovesciamento della prospettiva, e godrà infinitamente (come meritano) per le scene in cui Phoenix entra nella sua icona, muovendosi nel modo disarticolato e irrisorio che ha reso celebre il suo personaggio. Phillips invece ne smonta pezzo per pezzo l’imitabilità, fa in modo che il “There is no Joker” di Arthur ribalti il “I’m Iron Man” di Tony Stark, e ci lascia con un “That’s All Folks” che allo stesso tempo celebra e mette in ridicolo la major stessa che produce il suo film.


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