Roma, 8 marzo 2020. La ricca borghese Mariella scopre che il marito avvocato Giovanni la tradisce con Tamara, una donna più giovane e “periferica”, cioè borgatara. Tamara, cassiera al supermercato, è a sua volta sposata con Walter, placido tassista che scopre nello stesso giorno il tradimento della compagna. Ma proprio mentre Giovanni e Tamara stanno per uscire dalle rispettive case coniugali scoppia il lockdown, e le due coppie sposate sono costrette a rimanere insieme almeno fino a quando la quarantena non sarà terminata.
Chiunque, durante il lockdown, ha pensato almeno una volta alla situazione paradossale in cui devono essersi trovati gli amanti impossibilitati ad uscire di casa per i loro incontri clandestini, ed Enrico Vanzina, che ha sempre fatto del tradimento coniugale uno spunto comico, mette il dito nella piaga di una situazione che ha reso il tutto più farsesco.
È perfettamente lecito raccontare anche il più drammatico degli eventi nei suoi risvolti ironici, soprattutto se serve a fare da cartina di tornasole di quella società e quel carattere nazionale che tanto spesso i Vanzina hanno saputo fotografare con più lucidità e immediatezza di tanti trattati sociologici, e in questo senso Lockdown all’italiana è un memorandum delle situazioni stranianti in cui l’Italia, e poi il resto del mondo, si sono trovati all’insorgere della pandemia.
Il problema non è dunque il cosa ma il come: Enrico Vanzina, che scrive e dirige, mostra un impaccio formale nel confezionare i siparietti fra le coppie e abbonda nei dettagli – la spesa contingentata, le multe, lo smartworking e le conversazioni via Skype, il cane finto da portare a passeggio, ma anche la bandiera italiana sul balcone e le strade deserte – senza trovare quel ritmo cinematografico e soprattutto quel mordente che avrebbero potuto rendere questa “commedia del disastro” eccezionale.
Dentro Lockdown all’italiana c’è un film molto più coraggioso e dissacrante, disposto ad allontanarsi dalle battute retrò per affondare il colpo nel lato grottesco e amaro di una situazione eminentemente paradossale. Vanzina lo sa, perché cita ampiamente Sordi, Gassman e la commedia all’italiana più amara, ma se ne tiene ai margini.
La cifra del suo film è più malinconica che graffiante – e infatti cita anche Sapore di mare, nella scena in cui il personaggio interpretato da Jerry Calà prende consapevolezza dei suoi limiti e dei suoi rimpianti. In questo senso il portavoce della storia è Ricky Memphis nei panni di Walter, che trova il suo momento migliore nel dialogo con Riccardo Rossi (l’avvocato Persichetti) quando prende improvvisamente una virata drammatica e chiede a Walter (e a noi spettatori): “Lei non ha paura?”. Questo cambio di passo repentino, improvviso come un decreto governativo, è molto più efficace del monologo che farà più avanti Ezio Greggio nel ruolo del “cazzaro” Giovanni, con tanto di musica ispirata.
La regia è convenzionale – campi, controcampi, duetti fissi, uno sguardo in macchina qua, una ripresa a 360° là – il che fa percepire l’aspirazione di Enrico Vanzina a replicare il ritmo di suo fratello Carlo: per ora è un work in progress. Ci sono i riferimenti ai programmi di Barbara D’Urso, le stoccate alle mascherine chirurgiche che “non servono a un tubo ma sono obbligatorie” e allo “stato di polizia” imposto dal lockdown, c’è il dare voce alla pancia della gente (“Quando finirà sta galera?”), e c’è anche la consapevolezza che il virus non cambia la natura delle persone anche se ne modifica gli equilibri relazionali. Ma le gag e le battute sembrano ancorate agli anni Ottanta e perdono la preziosa occasione di testimoniare un presente dal potenziale davvero tragicomico.
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