La Fashion Week milanese di questa settimana e il deal degli scorsi giorni che ha portato il fondo L Catterton ad annunciare un’Opa su una quota del 36% del gruppo Tod’s rilanciano il dibattito sul futuro della moda italiana. Su quale sia il suo posto nel mondo, quali i rischi che corre e, al contrario, gli spazi che si aprono alle nostre produzioni. Quasi in coincidenza con gli eventi di cui sopra, l’Area Studi di Mediobanca ha pubblicato una raffinata e completa analisi del settore, esaminando separatamente le maggiori 80 multinazionali del fashion e le prime 175 imprese italiane della moda. Una ricerca che spazza via qualsiasi residuo dubbio sul carattere effimero di questo business e nella quale ci sono tutti gli elementi per poter intrecciare la rotta dei colossi internazionali (in primis francesi) e le prospettive del sistema Italia e delle sue aziende più prestigiose.
Il post pandemia
Spiega Gabriele Barbaresco, direttore dell’Area Studi: «Dopo il Covid la moda si è imposta con maggior forza scalando posizioni nella priorità dei consumi e generando un conseguente irrobustimento dell’intero comparto. In più anche in tempi di inflazione è stata sostenuta da una domanda rivelatasi anelastica». Le maggiori 80 multinazionali nel 2023 hanno fatto registrare un incremento di vendite del 7% e per il 2024 si attende una crescita comunque attorno al 4%. Tutti dati depurati dall’andamento dei prezzi. Complessivamente gli ultimi numeri disponibili (2022) parlano per la moda mondiale di un fatturato di 566 miliardi superiore del 21,6% ai livelli pre-pandemici.
La classifica del made in Italy
Al primo posto nei ricavi mondiali spiccano i francesi di Lvmh con 79,2 miliardi seguiti a molta distanza da Nike (48 miliardi) e Inditex-Zara con 32,6. Scorrendo la lista troviamo subito dopo EssilorLuxottica (24,5) che a sua volta precede Adidas e Kering. Per quanto riguarda gli altri italiani troviamo Prada al 33mo posto, Oniverse al 44mo, Moncler al 50mo e Giorgio Armani al 54mo.
Integrazione verticale nel lusso
Il mondo dell’offerta però è destinato ad andare incontro a un ulteriore consolidamento nei prossimi anni, secondo la ricerca. Spiega Barbaresco: «Nel campo dell’alto di gamma il consolidamento sarà verticale, i grandi gruppi continueranno a valutare integrazioni con i migliori fornitori per poterne controllare meglio la qualità e l’esclusività. Nel mass market, invece, ci saranno acquisizioni di tipo orizzontale». Questo anche per la caratteristiche strutturali del segmento: i gusti dei consumatori cambiano alla velocità della luce, con il peso della generazione Z che può influenzare successi e cadute rapidissime e quindi ci si concentra per ridurre i costi della logistica, per ampliare la rete distributiva, per essere più reattivi nel rispondere agli input del mercato.
I guadagni
Ma non è l’unica differenza tra alto di gamma e mass market. La redditività del primo segmento mostra un ebit delle multinazionali al 24,4% mentre i grandi del mass market si fermano al 9,7 per cento. «Sono numeri che per profitti evocano i risultati dell’industria farmaceutica e quindi fanno giustizia dei pregiudizi sul presunto carattere effimero». I due segmenti non si pestano i piedi, ma anzi si vanno polarizzando non solo per i risultati economici, ma soprattutto per le priorità industriali e le complessità organizzative. È un po’ la parabola che stanno affrontando Zara e H&M, un mondo nel quale l’Italia con Benetton è stata un precursore e oggi invece non sembra essere la materia in cui andiamo meglio.
Testa francese, anima italiana
E qui arriviamo al tema del made in Italy e del suo posto nel mondo. Il fulcro della presenza nazionale è nel segmento alto di gamma, al punto che siamo il primo produttore al mondo. Tra le multinazionali superiori al miliardo di ricavi 12 sono italiane contro 5 francesi, ma sono differenti le dimensioni e sono state diverse le capacità di aggregare. «Oggi dunque si può dire che la leadership è francese, ma il retroterra industriale è italiano. È vero che molte nostre imprese hanno cambiato di mano, ma non c’è stata delocalizzazione delle produzioni, anzi. Si è affermata la forza delle competenze e della territorialità quasi esistesse una poison pill. Chi compra per evitare di ingerirla non deve distruggere valore, ma proteggere le produzioni. Non siamo nelle produzioni fordiste dove le logiche sono del tutto diverse». Qualche numero: il 29% dei fornitori dei grandi gruppi europei della moda ha sede in Italia, quota che sale ai due terzi per i player del lusso. I ricavi aggregati delle aziende italiane della moda superano i 91 miliardi nel 2023 e per il 2024 si prevede un’ulteriore ma moderata crescita del 3%. Le produzioni dell’alta moda valgono il 67% del totale di abbigliamento, pelletteria e tessile, 62 delle maggiori 175 aziende tricolori ha proprietà straniera, nell’alto di gamma il controllo estero raggiunge 76,2% del fatturato (il 60% è francese).
La base produttiva
La base produttiva però è principalmente italiana: il 76% degli insediamenti manifatturieri è nel Belpaese mentre il restante 24% in Paesi stranieri. Per le aziende di alta gamma la concentrazione produttiva nazionale è ancora maggiore e tocca l’89 per cento. Il grado di maturità digitale è stimato da Mediobanca superiore alla media della manifattura italiana. Sono tutti dati da tenere a mente per fotografare la peculiarità del posizionamento italiano. «Ma se devo dire la mia non vedo pericoli di fagocitamento — argomenta Barbaresco —. Siamo una presenza produttiva insostituibile nel segmento più ricco, meno condizionato dalla volubilità del mercato. Se abbiamo attratto le attenzioni e i capitali stranieri c’era un motivo forte». Poi che il comando delle filiere sia francese con Lvmh, Kering e Hermes non c’è alcun dubbio.
La manodopera
Se non è il fagocitamento transalpino il rischio del made in Italy, un grosso pericolo è comunque rappresentato dalla difficoltà di ricambio della manodopera qualificata nonostante che si tratti di lavori ben remunerati. Secondo l’Area Studi Mediobanca occorre un’opera di sensibilizzazione a favore dell’artigianalità. È il vero tesoro del made in Italy e non può essere intaccato, pena il declino del ruolo che continuiamo ad avere nel gotha della moda. Un mondo nel quale la ricerca sostiene che il 36% della forza lavoro ha meno di 30 anni, con le aziende statunitensi che arrivano addirittura al 48% e questo si spiega con l’importanza della rete di vendita e della logistica che impiegano il 57% degli addetti contro solo il 24% di amministrativi e il 19% di dipendenti degli stabilimenti.
Le sfilate
Resta da focalizzare, infine, il legame tra produzione e sfilate, tra made in Italy e fashion week. «Le sfilate rappresentano una vetrina importante — risponde Barbaresco —. È lì che i valori dei brand prendono forma nella testa dei consumatori che poi vanno a comprare in negozio o sul sito. E lì che si costruisce la narrazione. In questa competizione Milano non soffre di subalternità, ha un suo posto nel mondo». Caso mai si può aggiungere che le nostre manifatturiere dovrebbero godere di maggiore presenza a valle, più l’identità italiana si afferma sul canale commerciale più il cerchio è virtuoso.
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