Lucia, Ada e Flavia sono le tre figlie femmine della famiglia Graziadei che ha contato dieci nascite, non tutte purtroppo andate a buon fine, come succedeva nell’Italia rurale all’epoca della Seconda Guerra Mondiale. I Graziadei vivono nella frazione trentina di Vermiglio, in una casetta in mezzo ai campi e alla neve dei lunghi inverni di montagna. Il capofamiglia è un maestro elementare che si sforza di insegnare ai suoi studenti non solo ad esprimersi in un italiano corretto invece del dialetto che tutti (compresi i Graziadei) parlano a casa, ma anche ad aspirare a qualcosa di più bello e più alto della fatica quotidiana. Quando i Graziadei ospitano un soldato siciliano che ha disertato l’esercito si innesca una reazione a catena che l’unità famigliare dovrà gestire, e che si svilupperà lungo le quattro stagioni dell’ultimo anno di guerra.
Vermiglio è l’opera seconda di Maura Delpero, dopo il suo notevole debutto con Maternal, e dà già prova di una sorprendente maturità espressiva che affonda le sue radici nel cinema di Ermanno Olmi, ma ancor di più in una realtà osservata con grande attenzione e restituita con commovente naturalezza.
Delpero e i suoi personaggi (si) raccontano con la calma e l’apparente semplicità di un tempo e uno schema di relazioni domestiche ben codificate dal costume sociale e dall’abitudine, ma sempre in procinto di aprire il fianco al nuovo, e non sempre al meglio.
Così Lucia, la bella figlia maggiore dei Graziadei, catturerà le attenzioni di Pietro il disertore, Ada cercherà di controllare pulsioni sessuali segrete che la indirizzano verso Virginia, la ribelle di Vermiglio, e Dino, il figlio maggiore osteggiato dal padre, alternerà la dolcezza verso i fratelli e la madre allo scarso impegno a scuola e alla propensione ad affogare le sue frustrazioni nel vino.
Quello che Delpero descrive è un piccolo mondo antico ancora riconoscibile ma già lontano nella sua gentilezza, nel suo calore famigliare e nell’afflato educativo del padre, pur condito di eccessiva severità e di quel pragmatismo che gli fa escludere dal proseguimento degli studi Ada, volenterosa ma non “portata”.
Delpero sa sempre dove posizionare la cinepresa per catturare in modo pudico e olistico la vita di questo microcosmo domestico e agreste, ottenendo da tutti gli interpreti (sotto il coaching sapiente di Alessia Barela), compresi i bambini più piccoli, recitazioni spontanee e profondamente credibili (un unicum nel cinema italiano contemporaneo), e uniformando la maggiore esperienza di Tommaso Ragno (efficacissimo nel ruolo del padre) o Sara Serraiocco con quella del resto di un cast scovato fra le montagne del Trentino Alto Adige.
Al centro di Vermiglio spiccano le figure femminili la cui scarsità di opzioni è manifesta e tangibile, ma che, come dirà Ada, non vorrebbero “essere uomini”, solo avere le loro stesse possibilità. Delpero racconta la loro storia, e quella delle figure maschili loro vicine, senza manicheismi e con grande fedeltà al contesto storico e sociale in cui si muovono: nessuno qui è un prevaricatore o una vittima predestinata, tutti sono esseri umani che vivono la loro condizione come possono, commettendo errori ma anche scelte etiche individuali, messi a dura prova da una guerra che – quella sì – priva tutti di dignità umana e di futuro.
Ognuno a Vermiglio “ha bisogno del suo cielo” anche quando le circostanze non sembrano dargliene diritto, e cerca un po’ di “cibo per l’anima”, che sia un disco o un mazzo di fiori, un bacio rubato o uno sguardo carico di desiderio; ognuno incontra ostacoli e dinieghi ingiusti; ognuno trasgredisce un poco, e un poco accetta il proprio destino e quei limiti, invece delle possibilità, che la società e persino la scuola ti “insegnano”.
Delpero restituisce centralità ai corpi e ad una sessualità che sfugge al controllo sociale e che si esprime soprattutto attraverso le donne, anche se gli uomini restano “il timone del carro”. E agli spettatori riserva il privilegio di seguire passo passo il suo racconto, assaporandone il gusto e annusandone gli odori, godendosi la musicalità di un dialetto montanaro e i suoi vocaboli desueti, il calore di una tazza di latte fra due mani giunte o di tanti corpi giovani assembrati in una sola stanza e un letto, anche posizionandosi testa e piedi.
Un racconto che si dipana con una comprensione autentica di chi sono i suoi protagonisti e qual è il mondo e l’orizzonte entro il quale si muovono, con la maggiore o minore libertà consentita loro dalle circostanze.
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